Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
Un altro monumento dell'ingegno umano. Si tratta di un vecchio fortilizio costruito per durare ed essere indistruttibile, per resistere agli attacchi dei nemici, che siano in armi o semplici vandali da strapazzo.
Il suo dovere l'ha fatto alla grande e continua a farlo tutt'oggi nel suo imponente abbandono. Si difende bene, la struttura è praticamente intatta. La pietra ha resistito per oltre cento anni dimostrando l'abilità del costruttore. Da quello che ho potuto capire è stato costruito nell'ultimo ventennio del 1800 ed è stato una fortezza inespugnabile sino a quando, dopo la prima guerra mondiale, la nascita dell'aviazione ha vanificato le capacità difensive di queste fortezze che erano inespugnabili solo facendo affidamento sull'insuperabilità della forza di gravità. Dopo la prima guerra mondiale, quindi, è stato trasformato in polveriera ed ha assolto questo suo nuovo compito fino al 1990 circa. Dopo è stato abbandonato, e giace sulla collina che lo ospita da oltre cent'anni continuando a resistere a nuovi nemici. Dentro non c'è più nulla, ma la struttura di pietra è intonsa e appare ancora invurnerabile. E' un dedalo di gallerie percorse da piccoli binari che servivano evidentemente alla movimentazione dei carrelli che portavano le munizioni. Abbiamo potuto riconoscere solo un ambiente: le vecchie latrine. Una serie di buchi su una seduta di pietra, che sfociano in un locale fossa nera sottostante. Alcune stanze hanno ancora i solai in legno e qua e la ci sono degli infissi in legno. Ancora visibili alcuni cancelli in ferro, con delle stupende decorazioni a forma di fiore e alcune inquietanti croci capovolte (poi lamentiamoci che in questi posti ci vanno a fare le messe nere, eh !). Il forte è circondato, come da manuale, da un fossato e si accede tramite un ponte. Il ponte originale probabilmente non era levatoio ma scorrevole: se ne intravede ancora parte dei meccanismi.
L'intero set di immagini è su lifelog.it
Mai avrei immaginato di poter fare una fotografia dentro ad una marmitta. Ma dentro, dentro, eh ! Cioè, dentro io, il cavalletto e la macchina fotografica. Si tratta solo di trovare la marmitta adatta. In questo caso la camera di scarico e insonorizzazione di una vecchia centrale turbogas abbandonata.
Il resto delle foto è su lifelog.it
L'orfanotrofio della Marcigliana nel 2011
Sono tornato dopo un anno alla Marcigliana. E' sempre un posto estremamente affascinante, spettrale. In un anno non è cambiato quasi nulla. Qualche bel murales in più, e un po' di erbacce di meno. Non ci sono più le palme che adornavano il viale, tagliate dopo essere state uccise dal punteruolo rosso. Stavolta ho voluto indagare più a fondo per capire cosa fosse questa struttura prima di cadere in abbandono. Su internet la teoria più accreditata è che si trattasse di un orfanotrofio o di un manicomio. La teoria manicomio è la più gettonata, ma semplicemente perchè è molto più intrigante. Su youtube ci sono una serie di filmati adolescenziali che mostrano esplorazioni a caccia di fantasmi e spiriti tra queste mura (con Profondo Rosso dei Goblin in sottofondo: è immancabile, come immaginare una convention aziendale senza We are the champions dei Queen. Dio della banalità abbi pietà di noi) Non ho trovato nessuna certezza (come mi piace che sia per questi posti dove non devono esserci certezze: la verità te la devi ricostruire tu, da tanti tasselli, senza mai essere sicuro di averla colta in pieno). Ho fatto alcune deduzioni che potete trovare dettagliate nel set delle immagini, e mi dispiace per chi si sentirà spogliato del fascino molto più tetro che avrebbe avuto come manicomio, ma direi che è quasi sicuro si trattasse di un orfanotrofio. Trasformato poi in istituto geriatrico (meno tetri entrambi, ma non molto più allegri).
Il palazzo è inoltre stato location di un paio di film (“I nuovi mostri” di Risi, Monicelli e Scola del 1977 - “La banda del gobbo” di Umberto Lenzi sempre del 1977).
Quindi sino al 1977 l'edificio era utilizzato, o quanto meno in buono stato di conservazione. Non mi è stato possibile scoprire quando sia stato chiuso definitivamente.
Dei pochi locali di cui si riesce a dedurre l'originaria destinazione, merita una citazione particolare la cappella (immancabile in un luogo simile). Ci sono ancora l'abbozzo in mattoni dell'altare e alcuni fregi in marmo. Macchie nere sulle pareti dimostrano l'impegno a cancellare scritte e simboli satanici (che si può fare nella cappella abbandonata di un posto simile, se non delle belle messe nere ?). Sempre nella cappella una persona con i piedi per terra ha scritto su un muro “A satana, mavaffanculo”: ogni tanto un barlume di ironica intelligenza pervade il genere umano. Su uno spuntone di marmo, invece, un'altra mano (o forse la stessa) ha vergato una semplice frase che riassume, a mio modesto parere, l'essenza dell'esistenza: “Nulla ti fa e tutto ti distrugge”. E' bello trovare su un muro la Verità.
C'è poi la stanza delle scritte dei bimbi (“Perchè non mi fanno uscire ? Mamma dove sei ? Perchè m'hanno punito ? Etc. etc.). Dei fake evidenti, ma di sicuro effetto.
Girarci dentro e pensare alla vita che c'è passata in tanti anni, fa un po' impressione. L'idea che un orfanotrofio fosse edificato in un posto così isolato dal mondo (lo è ancora adesso, figuriamoci nel 1933) la dice lunga sulla necessità di controllo, indottrinamento e di difesa dal mondo che le linee educative dettavano. L'orfano è un diverso, una mente da plagiare e indottrinare, e l'isolamento (anche fisico) è strumento utilissimo. Non a caso nei Lebensborn di Himmler i bambini venivano prontamente sottratti alle madri e non conoscevano mai il padre SS. L'educazione era solo ed esclusivamente la dottrina e nulla (meno che meno il sentimento materno) doveva introdurre il minimo disturbo. Ma forse queste sono soltanto mie sciocche idee, e in realtà nell'orfanotrofio si stava benissimo.
Un aneddoto finale: siamo appena arrivati e stiamo visitando il piano terra quando incontriamo il Geometra e il suo Aiutante. Il Geometra è un distinto signore coi capelli bianchi che indossa un caschetto giallo da cantiere. Porta in mano una stecca graduata e va misurando questo e quello. L'Aiutante è un ragazzo giovane con una Nikon a tracolla. Ci vedono e il Geometra chiede “Chi siete ?” e noi “Due fotografi”. Il Geometra “Ah, bene. Mi hanno detto che qui si possono incontrare persone poco raccomandabili” (porca miseria, l'avessi saputo gli avrei risposto “Siamo due fotografi poco raccomandabili”: che occasione persa !). Per salire ai piani superiori ci sono due scale: una ha un tratto completamente divelto e l'altra è invece in condizioni migliori. Il Geometra e l'Aiutante, protetti da Nikon ed elmetto giallo, sfidano il cavalcone di legno pericolante che giunta le due parti rotte della scala malmessa, e noi invece saliamo più prosaicamente con la scala sana. Dopo un po' li rincontriamo e mi azzardo a chiedere “Ma come mai questi rilievi ? C'è un progetto di recupero ?” e il Geometra “Si, c'è un progetto di riportare questo posto a quello che era prima”. Preso dalla curiosità sul passato del posto chiedo “Ah si ? Quindi ci sa dire cosa c'era prima tra queste mura ? “ e il Geometra “No, non ne ho idea”. Lo salutiamo, non senza raccomandargli di scendere per la scala buona, senza sfidare due volte la fortuna nel giro di due ore.
Alla fine della visita stiamo salendo in macchina e arriva Cesare. Cesare è il “guardiano” delle rovine. Sembra che abiti lì e chiede una “tassa” ai visitatori: una ventina di euro ai combattenti che ci vanno a giocare a softair, una quarantina agli artisti (noi siamo la seconda categoria, seppur immeritatamente). Stavolta gli è andata male, siamo in partenza e ormai i soldi non ce li può chiedere. Quindi ci saluta cordialmente e torna alle sue faccende.
Trovate qui l'intero set di immagini
Possedendo un Nokia 5230 che permette di registrare automaticamente nelle foto le coordinate GPS del punto dove sono state scattate, mi sono chiesto come fare ad ottenere lo stesso risultato per la mia reflex.
Il dispositivo GPS dedicato del produttore costa oltre 300 euro, funziona solo con quel modello (quindi avendo due corpi macchina, sei fregato) e deve ovviamente essere collegato via cavo alla macchina fotografica.
Quindi è risultato da subito abbastanza inabbordabile.
Cercando sul web ho trovato una soluzione estremamente più economica e versatile.
In pratica si tratta di utilizzare un logger GPS che registra di continuo la posizione dove ti trovi, e poi utilizzare tale informazione per inserire nelle immagini le coordinate GPS.
Il prodotto che ho scelto è il i-gotU GT-600, prodotto dalla Mobileaction.
Costa una settantina di euro e permette di avere una mappatura continua della posizione per 30 ore continue. Ha sensore di movimento (che permette di risparmiare la batteria e lo spazio di memoria, mettendo in stand by il logger quando non ti muovi), è impermeabile e anche molto grazioso e compatto. Inoltre permette di utilizzare le informazioni di log per molti altri scopi (creare mappe di viaggio, gestire attività sportive, etc. etc.).
La confezione contiene, oltre al logger, una custodia in silicone, un mini cd con il software (che si può comunque scaricare liberamente dal sito del produttore), cavo di collegamento al PC e una fascia per fissarlo al braccio.
Si collega al pc e con il suo sw dedicato permette di scaricare le informazioni del tragitto effettuato e di sincronizzare le fotografie con tali info. Tutto bene ma….. il sw in dotazione può gestire solo le immagini JPEG.
E io che uso solo il formato RAW ?
Altra piccola ricerca e ho trovato Geosetter. Si tratta di un freeware che permette di aggiornare i tag GPS delle immagini partendo dai files .gpx che crea il logger e che funziona egregiamente con i formati RAW sia di Nikon che di Canon (e con tanti altri).
Come funziona il tutto ? Molto semplice:
- Quando esci a fare le foto accendi il logger e te lo tieni nello zaino (o al polso o dove preferisci, purché in posizione utile a ricevere il segnale GPS). L’autonomia di 30 ore è più che sufficiente per quasi qualsiasi tipo di escursione. Può memorizzare sino a 262.000 waypoints (posizioni), quindi con un campionamento di una posizione ogni 15 secondi, possiamo tenere in memoria nel logger oltre 1000 ore di viaggio….
- Torni a casa la sera e scarichi il file dal logger
- Scarichi le foto fatte in una directory
- Apri Geosetter, gli dici dove sono le foto e dove è il file (o i files) di log e lui, in automatico, aggiorna le immagini aggiungendo la posizione (latitudine, longitudine e altitudine).
Per georefenziare le foto, Geosetter utilizza due metodi a scelta: o scrive direttamente le informazioni EXIF nella foto (facendo un backup automatico del file ad evitare che un errore di scrittura le danneggi) oppure aggiunge nella stessa directory una serie di files xml (uno per ogni immagine) che hanno nome uguale alla foto ma estensione diversa (avremo quindi, per l’immagine DSC_2104.NEF il file DSC_2104.xmp). In tal modo i files originali non vengono toccati.
Pro e contro rispetto a un ricevitore dedicato da collegare alla macchina fotografica:
PRO
- Costo estremamente contenuto (il GT-600 si trova a meno di 70 euro, ma si può optare per il GT-120 che costa meno di 40)
- Universalità dell’attrezzatura: non solo non sei vincolato ad usare sempre e solo un corpo macchina ma puoi addirittura usare contemporaneamente 2, 3, 10, 100, 1000 etc. etc macchine fotografiche diverse. L’importante è che quando scatti la macchina sia nella stessa posizione dove si trova il logger e che abbia la data e ora impostate correttamente (ma in caso di scarto tra l’orario della macchina e quello del logger, è possibile correggere il delta con Geosetter)
- Nessun collegamento con la macchina fotografica (meno impicci da gestire)
CONTRO
- L’unico contro che ho trovato è che il cavo di connessione del logger ha un connettore proprietario, quindi se si rompe o te lo perdi, non scarichi più le informazioni ne’ lo ricarichi. In ogni caso un cavo di ricambio costa meno di 4 euro e quindi vale la pena di acquistarne uno contestualmente all’acquisto del logger.
Chi segue questo blog da un po' di tempo, avrà notato il mio crescente interesse per la documentazione fotografica di luoghi in abbandono, che siano archeologia industriale o meno. Tutti quei luoghi, insomma, dove il tempo si è fermato. Sono posti speciali, che voglio fermare anche in uno scatto fotografico.
Ci entri da solo, testimone di un passato che a nessuno interessa: gli altri vanno in rutilanti centri commerciali, a vedere le mostre di quadri "in", a fare la settimana bianca, a fare l'aperitivo nel bar figo. Senza emozione, perchè è tutto chiaro e codificato. Nei posti abbandonati, invece, i significati li devi interpretare tu, partendo dalle poche tracce confuse che il tempo ha cercato di cancellare. Se la fuori c'è qualcun'altro (lo so che c'è) che, come me, è affascinato da questi posti sospesi tra il passato e il presente, mi farebbe piacere conoscerlo; appassionati di fotografia, nella zona di Roma, che desiderino come me esplorare fabbriche e stabilimenti abbandonati.
Se qualcuno fosse interessato a condividere queste esperienze, può contattarmi via email (webmaster@aprescindere.com). Grazie sin d'ora Pietro
Traffico, file, semafori, clacson. Tutte le mattine la stessa strada per andare in ufficio. Gesti meccanici, movimento automatico verso la routine. Intorno altre persone ingabbiate come te nelle scatole di ferro che li spostano da casa all'ufficio e viceversa. L'ufficio è sicurezza, quotidianità, una sorta di piccolo paese in cui, fondamentalmente, vivi la tua vita. E' lì che abiti, non a casa. Ci passi il grosso della tua vita. Ma ci sono, proprio accanto a te, dei mondi paralleli che non percepisci. Ci passi accanto tutti i giorni, ma sono distanti anni luce. Anche se ne sei separato solo da una fragile cancellata. Contengono un mondo che è stato esattamente uguale al tuo, ma che ora non è più. Anche lì, una volta, c'era gente che entrava al lavoro tutti i giorni proprio come te. E che, proprio come te, pensava che quel posto fosse il suo mondo: sempre uguale, noioso, routinario, ma sicuro. E' questo che cerchiamo, in fondo, no ? La sicurezza, Sicurezza che ci copre di noia ma ci permette di avere un mezzo di sostentamento stabile. E relazioni umane sicure, forzate e garantite da un contratto di lavoro. Ma che ti regalano una socialità surrogata. In questi luoghi, l'incantesimo si è spezzato. La sicurezza si è dissolta a causa di meccanismi inconoscibili: chi li chiama mercato, chi li chiama progresso, chi li chiama globalizzazione. Fatto sta che un giorno il tuo lavoro cessa di essere redditizio per chi te lo ha offerto sino a quel momento. E tu vai a casa, dove non hai più nulla, perché era tutto li. Artificiale, forzato ma sicuro. E ora non c'è più. Così il tuo mondo , il posto dove andavi al lavoro ogni giorno, piano piano sbiadisce, scolora. Viene prima abbandonato e poi occupato da chi, a differenza di te, un posto di lavoro sicuro non l'ha mai avuto. Dove c'era la sicurezza, ora c'è incertezza. Dove c'erano procedure chiare, contrattualmente codificate, torna la legge naturale. Chi arriva prima prende il poco che c'è da prendere: rame, ferro e qualsiasi altro elemento che si possa rivendere per pochi spiccioli. Ho voluto saltare la sottile barricata (anzi, non l'ho neanche dovuta saltare, perché era aperta) e andare a vedere uno di questi universi paralleli, a due passi da dove lavoro. L'avevo visto spesso da fuori, e ora sono riuscito a entrarci. Devo ringraziare un paio di amici che hanno avuto la pazienza e il tempo di accompagnarmi. Perché, in fin dei conti, io appartengo ancora all'altro mondo, quello sicuro dove ognuno ha, come scrisse Roger Waters, “recourse to the law”, quindi ho paura a varcare da solo il cancello. Mi sono portato la macchina fotografica e ho cercato di strappare a quel mondo qualche immagine. Non ho voluto (o forse non ne ho avuto il coraggio) fotografare i nuovi abitanti del modo parallelo. Quelli che, sporchi di grasso e fuliggine, stanno smontando tutto ciò che sia rivendibile per sbarcare un lunario difficile e doloroso. Respirando polveri e tossine di chissà quale tipo (qui, quando ancora si era nel vecchio mondo, si fabbricavano farmaci). Li abbiamo incontrati, ci sono venuti incontro. Un po' curiosi e un po' impauriti. Chi erano questi due personaggi ben vestiti, con macchina fotografica e cavalletto ? Giornalisti ? Si, giornalisti era stata la loro impressione. Ci hanno chiesto se facevamo un servizio su quel posto, se avremmo pubblicato un pezzo del loro mondo. A uno di loro ho detto: ”No, non sto lavorando. Lo faccio per passione. Mi piace fotografare posti abbandonati”. Mi ha guardato con uno stupore indescrivibile e mi ha chiesto “Ti piace questo posto ?!”. Ho realizzato solo in quel momento come i nostri mondi fossero lontani: io trovo affascinante il loro inferno. Ne sono stato un po' divertito ma ho anche provato un pizzico di vergogna. Ho diviso le immagini in quattro categorie:
- Esterni
- Laboratori
- Officine
- Uffici
Ogni immagine si chiama con la relativa iniziale (e, l, o, u). La parte più interessante è quella dei laboratori e degli uffici. Osservando le macerie hai la sensazione di due piani temporali distanti, che mal si conciliano tra loro. Quelle che ho definito “officine”, sembrano opere industriali di inizio 900. Non appaiono assolutamente compatibili con la precisione e l'efficienza sterile di un'industria farmaceutica. Sono grezze. Sono officine da grasso sulle mani, tonfi di maglio, sudore e bestemmie. In un edificio c'è un immenso forno alto tre piani. Tutto in mattoni di cotto. E' un forno da fabbrica e non da farmaceutica. Tra le macerie in terra ho trovato un portachiavi di alluminio realizzato interamente a mano: una sottile lamella su cui è stata impressa, con spaziatura e allineamento irregolare, la scritta OFFICINA MECCANICA. Non è frutto di consumismo. Non è comprata bella e fatta, ma creata a mano. E' di tanti tanti anni fa; quando le cose si “facevano” e non si “compravano”. Poi ci sono quelli che ho definito “laboratori”: provette, tubi, sostanze chimiche e strumenti di precisione. Qui siamo negli anni settanta e oltre. Dal caos lasciato da anni di incuria e vandalismo, traspare chiaramente la precisione del chimico in laboratorio. Negli “uffici”, invece, siamo in un'era che arriva a ridosso dell'avvento del personal computing. Si va dalle schede cartacee ai primi pallidi baluginii dell'informatica: harware IBM massiccio e grigio, lettori di floppy da 5 ¼ (quelli realmente “floppy”), calcolatrici LOGOS e macchine da scrivere elettromeccaniche dell'Olivetti, Se ti soffermi a leggere velocemente qualcosa di quello che trovi, ricordi (anzi, riscopri) che, non tanto tempo fa, i documenti si trasmettevano da un ufficio all'altro con la lettera di accompagnamento. Di carta. Ho potuto leggere “Caro Domenico, ti trasmetto in allegato......”, perché era su un foglio di carta. Per chi come me ha vissuto solo l'ufficio con l'email, è pura e sublime archeologia burocratica. E penso che oggi del nostro esistere non resterebbe nulla. Alla morte dei dischi del server su cui ci sono le nostre caselle email, ogni nostra traccia in azienda scomparirebbe per sempre. Invece un foglio di carta, magari ammuffito, ingiallito e morso dai topi, è infinitamente più tenace nella sfida del tempo. Come sempre, non so selezionare gli scatti fatti. Li ho messi quasi tutti. Nessuno merita di non esserci (lo so, è un mio limite). Ho però eliminato, nelle poche foto dove erano leggibili, tutti i riferimenti al nome dell'azienda. Non è in realtà interessante: era solo una delle tante farmaceutiche italiane fagocitate dai grandi gruppi monopolisti internazionali. Non ho pubblicato le quattro pagine fotografate nella bacheca sindacale dove è dettagliatamente descritto l'accordo per la chiusura dell'impianto e la collocazione in mobilità del personale nel non lontano 2007: una sorta di pudore me l'ha impedito. Ho creduto fosse invece interessante pubblicare alcune altre cose:
Si, perché una delle cose che non è stata asportata è proprio la carta. E ce n'è una valanga: raccoglitori, schedari, cartelle. Sembra che sia stata lasciata lì a memoria del mondo che c'era. Avendo tempo e pazienza si potrebbe ricostruire, da tutta questa carta, una buona fetta della memoria storica di questo posto. Per quanto riguarda gli uffici, ho potuto riconoscere solo quello di una funzione aziendale specifica. L'ufficio del direttore del personale. Oggi la sua scrivania giace in una pozzanghera verde, e accanto ha ancora abbastanza ordinata, la vetrinetta contenente i testi sacri. Primo fra tutti, in alto a destra, il corpo del codice del lavoro, dorso giallo. Di solito si suggerisce il vino adatto ad una pietanza. Vorrei fare la stessa cosa anche per la visione di queste immagini: trovate e mettetevi in sottofondo “The nobodies” di Marilyn Manson. Non riesco a immaginare nulla di più maledettamente adatto. E chissà se capiterà anche a voi quello che è successo a me: quando sono tornato in ufficio, dopo questa visita, mi si è materializzata per qualche istante una visione: anche la mia stanza era a soqquadro, coperta di polvere ed escrementi di piccione; il mio mondo si era spento esattamente come quello, e ora si stava aggirando per le stanze deserte un uomo sconosciuto, armato anche lui di macchina fotografica. Osservava e documentava il passato, con un'emozione struggente e un enorme groppo alla gola.
Potete trovare qui l'intera serie di immagini
Stazione abbandonata di Porto - Fiumicino RM
Non potendone più di sale d'aspetto coi tavoli sfondati, di porte murate o grigliate di ferro, ho deciso di autonominarmi Signore di Demanio, principe delle sale d'aspetto abbandonate, alla ricerca di una qualche cazzo di deontologia per tenere insieme qualcosa che mi dispiace di buttare via. Capisco che bisogna pagare un prezzo, che non si può tener tutta quella gente attorno, al mondo. Si, ma voglio dire: se hai una carie ai denti, si può curare, non occorre mica mettere sempre una palla di cemento in bocca. E' che c'è qualcosa nelle stazioni che le rende diverse una dall'altra, sono le porte delle città. C'era scritto il nome, c'era la faccia di qualcuno. E dietro alle facce c'è un Paese, che se ti ostini a cercare non è tutto uguale. Dietro le stazioni ci sono le città, e a me piacciono le città, mi piace la gente che abita le città. Quando entro nelle città io vorrei sapere e capire qualcosa di quelle città, perché non è vero che tutto il mondo è paese; non c'ho mai creduto a sta balla qua. Marco Paolini, Album - La comune di Gemona
Visualizza l'intero set d'immagini
Un viaggio fotografico all'interno dell'area dei vecchi mercati generali di Roma Ostiense.
Ormai in abbandono da anni, sventrati da lavori di riconversione ovviamente interrotti come da migliore tradizione italica, giaciono nel ricordo del mondo che ci visse per quasi un secolo.
Tutte le foto qui.
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